Autore: Luisa Crevenna
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11 maggio 2020
La psicoanalisi nelle situazioni estreme è una tappa importante in un percorso di conoscenza teorica e tecnica e ci introduce in un territorio, da alcuni ritenuto limite per la sua valenza terapeutica, che ci obbliga a riflettere sulle teorie e sul loro rapporto con la tecnica e con la tecnica in relazione alla clinica. Diversamente da Bettelheim, che indica come estreme quelle condizioni nelle quali l’individuo si confronta con una minaccia di morte, con forme di grave coercizione, con violenze sistematiche, il prof. Manica propone per le situazioni estreme una prospettiva diversa, non quella cioè di una situazione catastrofica esterna e oggettiva, ma di una situazione interna fantasmatica che si esprime in una sofferenza psichica che ha a che fare con un’esperienza traumatica precoce dove è stata messa in gioco la sopravvivenza emotiva del paziente, qualcosa che nel suo ripetersi nella relazione terapeutica comporta anche per l’analista la messa in discussione della sua stessa identità terapeutica. Occorre scostarsi dalle categorie nosologiche usuali, mettere tra parentesi le classificazioni psichiatriche delle patologie e rintracciare un filo rosso tra formulazioni teoriche e correlate realtà cliniche, accostando organizzazioni della personalità diverse tra loro, ma accomunate dal nucleo tematico della lacuna nella propria coscienza di esistere. Quindi si tratta di pazienti gravi, gravi in senso psicoanalitico in cui la definizione di gravità non è direttamente collegata alla sintomatologia, ma alla possibilità di stabilire un approccio terapeutico, alla sua opportunità e alla sua potenzialità. Sono situazioni in cui la domanda centrale e ineludibile é: come può la psicoanalisi, con la sua cura attraverso le parole, riparare gli effetti dei traumi che si realizzano in dimensioni pre-verbali e pre-simboliche dell’esperienza mentale? Come si può dare rappresentazione e figurabilità al vuoto? Dare risposta a queste domande significa mettere in campo, riverificare, ridiscutere tutto l’armamentario di teoria e di tecnica di cui ci siamo dotati. Nel pluralismo di prospettive teoriche in cui oggi si declina la psicoanalisi, il terreno comune per le varie teorie è la clinica, cioè una modalità simile all’entrare in relazione con i nostri pazienti nel qui e ora del transfert/controtransfert. Fra teoria, metodo e cura, interpretando lo Junktim freudiano: la via della conoscenza e la via della cura sono la medesima via, Manica considera che la teoria e la pratica clinica si arricchiscano reciprocamente in un rapporto d’interdipendenza, di reciproca influenza, di sinergie e positive o negative interazioni. Anzi maggiormente propende nel considerare che la teoria prenda vita e si rinnovi continuamente nella clinica, nell’incontro e nel dialogo tra analista e paziente che si relazionano in un setting modulato dal transfert e dal controtransfert. La priorità conferita all’ascolto dell’incontro tra due soggetti, l’opportunità di formulare interpretazioni che siano il prodotto dell’incontro e non il mero riferimento a una teoria impediscono l’evitamento del contatto profondo con il paziente che può essere provocato dall’uso difensivo delle teorie. Diversamente, il non aggrapparsi inconsciamente e controtransferalmente alle teorie assunte come dogmi, consente l’applicazione non conformistica di modelli teorici precostituiti, favorisce il poter stabilire una relazione libera e creativa con le proprie teorie di riferimento e una modulazione della tecnica rispetto all’ascolto del paziente, delle sue comunicazioni, dei suoi vissuti. La mente dell’analista è una parte essenziale del lavoro clinico. I suoi sentimenti e le sue teorie, cioè la partecipazione emotiva come persona e la sua funzione pensante, sono le coordinate di un percorso clinico che varia la distanza dal paziente dall’astinenza a possibili momenti di simmetria. E nella mente dell’analista ci sono anche le teorie. Non è possibile esserne senza, non farne uso, ignorarle. I fatti non esistono svincolati dalle teorie che permettono di osservarli e di assegnare loro un senso, ma la teoria deve crearsi e modificarsi con l’evoluzione della relazione terapeutica con quel paziente. Suggerisce Manica: Non si può essere psicoanalisti senza arrivare a creare una propria teoria, teoria che deve essere intesa come co-costruzione che prende forma nella stanza di analisi e non può non riconoscere il contributo tanto del paziente quanto dell’analista a quella realizzazione fino all’estremo paradossale di tanti modelli quante sono le coppie analitiche in grado di pensarli. Quindi non una teoria ma, una teoria per quel paziente, teoria che nasce e si evolve parallelamente al crescere della relazione. Manica propone di utilizzare le teorie nella loro funzione metaforica e significante e per sviluppare la propria capacità personale suggerisce di giocare winnicottianamente con le teorie soprattutto quando si è a contatto con un’area estrema della clinica e delle possibilità terapeutiche della psicoanalisi, cioè in quelle circostanze dove l’unico criterio di analizzabilità è definito dalla capacità dell’analista di riconoscere se sia o meno in grado di assumersi la responsabilità di mantenere il setting inteso non certo per gli aspetti formali, ma per la capacità di tollerare, condividere e di contenere, nel senso di avere dentro di sé e in alcuni momenti su di sé, la sofferenza del paziente. Non siamo in un’area particolarmente distante dalla lezione di Benedetti che Manica, nei suoi libri, comunica di conoscere e apprezzare. Manica è psicoanalista che proviene dalla psichiatria come suo primo luogo di formazione, la psichiatria di Borgna, di Marcella Balconi, di De Martis a Pavia, ecc. e che, nel passaggio a una pratica privata e prevalentemente psicoanalitica, ha conservato l’impronta della sua prima vocazione psichiatrica nel pubblico, in una psichiatria di comunità. Ha mantenuto il suo essere un terapeuta che configura l’incontro con il paziente come un incontro esistenziale, una lotta contro la follia, affiancandosi al dramma dei pazienti, toccandone la non esistenza, nel tentativo di strappare il paziente all’angoscia del vuoto e, attraverso la dualizzazione dell’incontro, condurlo alla riacquisizione di un senso. Come per Benedetti, il suo è un confrontarsi con l’esistenza negata, nella convinzione che anche un personaggio assente può essere protagonista di una narrazione e che nella ricerca di dare vita e visibilità a questo personaggio in termini attivi, si può essere trasportati lontano da sé come condizione, parafrasando Heidegger, di un possibile ritorno più cosciente a sé. Come per Benedetti, “al mondo dell’alienazione contrappone il mondo della ricezione terapeutica”, al negativo quello del lavoro del positivo, con una partecipazione che non è solo comprensione ma un “portare assieme” che è “farsi carico di una sofferenza condivisa”. Come per Benedetti, Manica considera una sfida quella di cercare di capire e di decifrare, una sfida intesa come base, condizione, parte essenziale di ogni autentico impegno nell’ambito della clinica. Come per Benedetti, Manica fa lo sforzo di coniugare la cura dei pazienti gravi con la tecnica psicoanalitica, ripensando ai concetti classici di transfert, controtransfert e interpretazione e indicando la comunicazione inconscia come modo di essere con il paziente e di accettare la scommessa della psicoterapia intesa come un andare “oltre”, aprire nuove prospettive, ricercare nuove forme di contatto finalizzate a varcare i confini dei silenzi e della desolazione intrapsichica: in fondo un essere accanto all’altro nella sofferenza giungendo a dilatarne la comprensione in termini psicoanalitici. In questo senso è possibile a rintracciare un comune denominatore psicanalitico in ogni forma di terapia, sia che si svolga in un ambito individuale o in un ambito comunitario, sia nella realtà di un reparto psichiatrico che in una stanza di analisi e sia che riguardi il singolo analista o un gruppo curante.