Luisa Crevenna
Psicologa - Psicoanalista - Psicoterapeuta in Varese


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ORIENTAMENTO SESSUALE

Intervento presentato al convegno 
“INTO ME, OUT OF ME” 
Sesso, genere, sessualità nella psicoanalisi contemporanea

Con la partecipazione del Prof. Vittorio Lingiardi
Milano 19 marzo 2019

La sessualità è un punto da cui la psicoanalisi ha preso il suo avvio e che continua a rimanere una delle sue frontiere, poiché è questione che richiede una costante elaborazione teorica e clinica per la divaricazione esistente tra le radici inconsce della vita sessuale e il suo intrecciarsi con le significative influenze del sociale dell’immaginario collettivo e delle trasmissioni transgenerazionali. 
Siamo anche sollecitati dalle difficoltà che i nostri pazienti ci presentano sempre più frequentemente, in un momento di profonda trasformazione antropologica che ci sfida a pensare a nuove geometrie della mente.
Pur nell’unanime accordo della comunità scientifica psicoanalitica sul fatto che non esista sessualità che non sia psicosessualità, qualcuno ritiene che gli organizzatori classici della psicosessualità conservino ancora il loro ruolo di organizzatori della personalità, mentre, per altri, prevale l’idea che abbiano perso questa loro funzione e destituiscono la psicosessualità da organizzatore a semplice espressione di modalità relazionali. 
Qualcuno mantiene la centralità della vicenda edipica per la determinazione del genere sessuale, altri insistono nel sostenere che sono le prime relazioni oggettuali a determinare il genere sessuale. 
Qualcuno, ribadendo il fatto che le pulsioni sono anche la misura delle richieste che il corpo pone, considera che vi sia una tendenza teorica alla desessualizzazione e una sottovalutazione della dimensione corporea.
Ma in molti si sente l’esigenza di una teoria generale dello sviluppo psicosessuale nella psicoanalisi contemporanea.
Occorre mettere qualche punto fermo o meglio ancora fermare qualche immagine del poliedrico caleidoscopio che lo studio della sessualità propone nella nostra società post-moderna. 
La psicoanalisi freudiana, con la teoria psicosessuale, ha posto la sessualità alla base del proprio modello teorico collocandola al centro dell’organizzazione della vita psichica dell’uomo considerandola elemento fondamentale dello sviluppo psicologico e psicopatologico.
In questa impostazione mono-personale la libido è vista come una forza che, pur provenendo dal corpo, una volta registrata nella mente, guida i comportamenti e i processi evolutivi.
Si configura come una tensione psicofisica irriducibile verso l’altro, verso ciò che manca. Una tensione che sollecita la struttura del mondo interno, delle fantasie, delle forme dei desideri, dei sogni e che conferisce spessore ed energia al movimento verso l’altro da sé, l’altro che è in sé.
La svolta relazionale della psicoanalisi, nel passaggio da una psicologia mono a bi-personale, vede la sessualità non più appoggiata al concetto metapsicologico di pulsione ma considerata nella sua dimensione di esperienza sessuale nel rapporto con l’altro. 
Nella teoria delle relazioni oggettuali la sessualità è ancora considerata elemento chiave per l’identità, condizione fondante nella formazione e conservazione del senso di Sé.  
Ma il ribaltamento del rapporto tra oggetto e pulsione, la non univocità del rapporto tra pulsione e oggetto. propone una visione più articolata. In questa prospettiva l’oggetto interiorizzato attraverso la vicenda conflittuale assume un rilievo fondamentale per lo strutturarsi della pulsione stessa. 
Secondo la psicologia bipersonale o relazionale la libido si sviluppa nella relazione tra gli individui. La libido, sostiene Fairbairn, non è una forza impersonale, ma è invece strettamente personale e non cerca una scarica, ma un oggetto. La dimensione erogena del corpo (sempre Fairbairn) si attiva tanto per la relazione quanto per la chimica corporea. Allo stesso modo le fasi psicosessuali non sono solo momenti corporei ma anche interpersonali. 
L’introduzione del concetto di genere compare in psicoanalisi molto tardi. Non lo si trova negli scritti di Freud e bisogna arrivare al 1968 quando Stoller lo ha concettualizzato come una dimensione centrale dell’organizzazione del sé, dando inizio agli studi psicoanalitici sul genere a fondamento empirico, per i quali un grosso contributo fu quello fornito dalle psicoanaliste femministe di matrice relazionale.
Per Freud la differenza di genere è radicata nella biologia e concetti di genere e ruolo di genere sono pressoché sinonimi.
Il concetto di genere, cioè la consapevolezza conscia e inconscia di appartenere a un sesso, sposta l’accento dal corpo alla psiche, accostando al genere sessuale biologico. la percezione e la rappresentazione intrapsichica e culturale delle prerogative del maschile e del femminile non sempre necessariamente e naturalmente allineata con il sesso anatomico  
I Gender studies ci portano a ripensare alle dimensioni del maschile e del femminile in modo più libero, rispetto al determinismo anatomico. ma anche in modo più complesso rispetto ad un dicotomico o/o.
Il genere investe direttamente l’intima relazione tra sessualità e quel costrutto, intrinsecamente problematico in psicoanalisi, che è l’identità.
In questa visione non è più la normale soluzione edipica eterosessuale che porta a compimento lo sviluppo psicosessuale, centrato sull’integrazione delle componenti parziali della sessualità infantile, ad avere il primato nel determinare l’identità di genere. 
Per le teorie della relazione oggettuali, che privilegiano la precoce attiva e superiore importanza della madre nella soggettività del bambino, il genere si costituisce passando attraverso la sensorialità corporea nei processi di attaccamento e identificazione con il primo oggetto d’amore che conduce a far esperienza di sé e dell’altro da sé.
La relazione edipica è ancora considerata cruciale per la costruzione della mascolinità e femminilità ma è ritenuta subordinata a processi più precoci.
Il diverso modo di affrontare la questione sessuale dipende in parte dall’evoluzione interna alle teorie psicoanalitiche ma anche dai profondi cambiamenti dello scenario sociale.
Durante il secolo scorso, la sessualità, da aspetto tenuto nascosto e rappresentato come estraneo all’identità personale, è diventata sempre più visibile prendendo le mosse dalla sessualità infantile riconosciuta e restituita ai bambini come patrimonio libidico personale nelle sue forme pregenitali, mettendo il piacere alla base dello sviluppo di tutte le forme di sessualità adulta.
Di contro, in questo secolo, il problema dell’identità del soggetto è balzato in primo piano come qualcosa che non si può dare per scontato, a cominciare dal moltiplicarsi dei casi di personalità multiple, costruite sulla base di scissioni verticali interne. 
Il sesso anatomico non è più un ovvio punto di riferimento intorno a cui costruire l’identità della persona, ma anzi spesso costituisce una difficoltà con cui lottare per esprimere valenze personali indefinite e complesse.  
Transex e travestitismo sono emblemi della crisi della dicotomia maschile/femminile, della conflittualità interna e della pluralità di ogni identità di genere.
Rovesciando il paradigma freudiano, possiamo rilevare come il disagio postmoderno sia alimentato non più dagli effetti di una repressione della sessualità, dalla costrizione e dai limiti imposti dal sistema normativo sociale sullo strutturarsi della soggettività, ma, all’opposto, dal liquefarsi degli apparati simbolici e delle strutture collettive delle soggettività, che erano certamente un limite ed un vincolo, ma anche potenti organizzatori della vita pulsionale.
L’instabilità e molteplicità dei generi è un fenomeno eclatante, epocale ed è possibile sostenere che il concetto di genere ha finito con assorbire il tema della sessualità, poiché non è la sessualità che determinare il genere, ma il genere che organizza la sessualità. 
Autore: Luisa Crevenna 11 mag, 2020
Il capitolo della psicosi, della follia è una tappa importante del nostro cammino di conoscenza teorica e tecnica, una tappa che ci spinge in un territorio da alcuni ritenuto al limite per la psicoanalisi e per la sua valenza terapeutica. Una conoscenza che si sposta dalle categorie nosologiche, che mette tra parentesi le classificazioni psichiatriche per cogliere il nucleo tematico, per ascoltare le parole e le voci, cogliere i gesti che accompagnano la sofferenza. Una conoscenza che si integra indissolubilmente con un atteggiamento interiore di accoglienza. La follia è un tema complesso: non può essere affrontato solo con un pensiero scientifico sistematico, per essere compresa necessita anche di un pensiero emozionale, di un linguaggio che si distingue da quello scientifico, un linguaggio che si avvicina maggiormente alla filosofia, all’arte, alle espressioni umanistiche in genere. La filosofia offre alla psichiatria degli orizzonti di senso nel confronto con la sofferenza umana permettendole di riflettere sul significato dei deliri e di avvicinarla al rispetto e alla comprensione di questa esperienza. Se cogliamo nel delirio solo deformazione insensatezza violenza, se ci si confronta con quelle linee ipotetiche che riducono la follia a qualcosa di estraneo, che non ha nulla a che fare con noi, si creerà una dimensione di distacco che inibirà la nostra azione terapeutica. Si apre, al contrario, una possibilità terapeutica se sappiamo cogliere nella follia una delle modalità di espressione della persona, se la avviciniamo ai nostri sentimenti, alle nostre emozioni, a qualcosa che ha a che fare con la nostra quotidiana interiorità. Poiché quello che noi possiamo cogliere dall’esperienza della follia dipende non solo dai contenuti della follia, ma anche dall’atteggiamento che noi esprimiamo al di là delle cause e delle formule, comprendendola come una esperienza di vita e di dolore. Senza la capacità di rivivere come nostri i dolori degli altri, diventa difficile procedere nel cammino della cura e nel modo di affrontare la follia. Se manteniamo l’opportunità di scorgere nella esperienza psicotica la persistenza della dimensione umana, forse diversa, ma non aliena, potremo anche trovare nella follia valori, possibilità di realizzazione che in essa sono nascosti e soprattutto saremo più in grado di capire come funziona la nostra mente. Poiché la follia è prima di tutto un’esperienza soggettiva, se non sappiamo far lievitare la profonda interiorità del paziente, non possiamo illuderci di avvicinarci, comprendere, curare. Ovviamente senza rinunciare a fare discorsi di psicologia clinica, e oggi ne faremo, ci soffermeremo sulle somiglianze e le differenze tra metodi di cura diversi. La nostra impostazione rimarrà quella di soffermarci sull’enigma e sul mistero, senza applicare categorie interpretative, quindi, senza attuare semplificazioni ma tentando di cogliere l’essenziale al di là delle convenzioni scientifiche.
Autore: Luisa Crevenna 11 mag, 2020
La psicoanalisi nelle situazioni estreme è una tappa importante in un percorso di conoscenza teorica e tecnica e ci introduce in un territorio, da alcuni ritenuto limite per la sua valenza terapeutica, che ci obbliga a riflettere sulle teorie e sul loro rapporto con la tecnica e con la tecnica in relazione alla clinica. Diversamente da Bettelheim, che indica come estreme quelle condizioni nelle quali l’individuo si confronta con una minaccia di morte, con forme di grave coercizione, con violenze sistematiche, il prof. Manica propone per le situazioni estreme una prospettiva diversa, non quella cioè di una situazione catastrofica esterna e oggettiva, ma di una situazione interna fantasmatica che si esprime in una sofferenza psichica che ha a che fare con un’esperienza traumatica precoce dove è stata messa in gioco la sopravvivenza emotiva del paziente, qualcosa che nel suo ripetersi nella relazione terapeutica comporta anche per l’analista la messa in discussione della sua stessa identità terapeutica. Occorre scostarsi dalle categorie nosologiche usuali, mettere tra parentesi le classificazioni psichiatriche delle patologie e rintracciare un filo rosso tra formulazioni teoriche e correlate realtà cliniche, accostando organizzazioni della personalità diverse tra loro, ma accomunate dal nucleo tematico della lacuna nella propria coscienza di esistere. Quindi si tratta di pazienti gravi, gravi in senso psicoanalitico in cui la definizione di gravità non è direttamente collegata alla sintomatologia, ma alla possibilità di stabilire un approccio terapeutico, alla sua opportunità e alla sua potenzialità. Sono situazioni in cui la domanda centrale e ineludibile é: come può la psicoanalisi, con la sua cura attraverso le parole, riparare gli effetti dei traumi che si realizzano in dimensioni pre-verbali e pre-simboliche dell’esperienza mentale? Come si può dare rappresentazione e figurabilità al vuoto? Dare risposta a queste domande significa mettere in campo, riverificare, ridiscutere tutto l’armamentario di teoria e di tecnica di cui ci siamo dotati. Nel pluralismo di prospettive teoriche in cui oggi si declina la psicoanalisi, il terreno comune per le varie teorie è la clinica, cioè una modalità simile all’entrare in relazione con i nostri pazienti nel qui e ora del transfert/controtransfert. Fra teoria, metodo e cura, interpretando lo Junktim freudiano: la via della conoscenza e la via della cura sono la medesima via, Manica considera che la teoria e la pratica clinica si arricchiscano reciprocamente in un rapporto d’interdipendenza, di reciproca influenza, di sinergie e positive o negative interazioni. Anzi maggiormente propende nel considerare che la teoria prenda vita e si rinnovi continuamente nella clinica, nell’incontro e nel dialogo tra analista e paziente che si relazionano in un setting modulato dal transfert e dal controtransfert. La priorità conferita all’ascolto dell’incontro tra due soggetti, l’opportunità di formulare interpretazioni che siano il prodotto dell’incontro e non il mero riferimento a una teoria impediscono l’evitamento del contatto profondo con il paziente che può essere provocato dall’uso difensivo delle teorie. Diversamente, il non aggrapparsi inconsciamente e controtransferalmente alle teorie assunte come dogmi, consente l’applicazione non conformistica di modelli teorici precostituiti, favorisce il poter stabilire una relazione libera e creativa con le proprie teorie di riferimento e una modulazione della tecnica rispetto all’ascolto del paziente, delle sue comunicazioni, dei suoi vissuti. La mente dell’analista è una parte essenziale del lavoro clinico. I suoi sentimenti e le sue teorie, cioè la partecipazione emotiva come persona e la sua funzione pensante, sono le coordinate di un percorso clinico che varia la distanza dal paziente dall’astinenza a possibili momenti di simmetria. E nella mente dell’analista ci sono anche le teorie. Non è possibile esserne senza, non farne uso, ignorarle. I fatti non esistono svincolati dalle teorie che permettono di osservarli e di assegnare loro un senso, ma la teoria deve crearsi e modificarsi con l’evoluzione della relazione terapeutica con quel paziente. Suggerisce Manica: Non si può essere psicoanalisti senza arrivare a creare una propria teoria, teoria che deve essere intesa come co-costruzione che prende forma nella stanza di analisi e non può non riconoscere il contributo tanto del paziente quanto dell’analista a quella realizzazione fino all’estremo paradossale di tanti modelli quante sono le coppie analitiche in grado di pensarli. Quindi non una teoria ma, una teoria per quel paziente, teoria che nasce e si evolve parallelamente al crescere della relazione. Manica propone di utilizzare le teorie nella loro funzione metaforica e significante e per sviluppare la propria capacità personale suggerisce di giocare winnicottianamente con le teorie soprattutto quando si è a contatto con un’area estrema della clinica e delle possibilità terapeutiche della psicoanalisi, cioè in quelle circostanze dove l’unico criterio di analizzabilità è definito dalla capacità dell’analista di riconoscere se sia o meno in grado di assumersi la responsabilità di mantenere il setting inteso non certo per gli aspetti formali, ma per la capacità di tollerare, condividere e di contenere, nel senso di avere dentro di sé e in alcuni momenti su di sé, la sofferenza del paziente. Non siamo in un’area particolarmente distante dalla lezione di Benedetti che Manica, nei suoi libri, comunica di conoscere e apprezzare. Manica è psicoanalista che proviene dalla psichiatria come suo primo luogo di formazione, la psichiatria di Borgna, di Marcella Balconi, di De Martis a Pavia, ecc. e che, nel passaggio a una pratica privata e prevalentemente psicoanalitica, ha conservato l’impronta della sua prima vocazione psichiatrica nel pubblico, in una psichiatria di comunità. Ha mantenuto il suo essere un terapeuta che configura l’incontro con il paziente come un incontro esistenziale, una lotta contro la follia, affiancandosi al dramma dei pazienti, toccandone la non esistenza, nel tentativo di strappare il paziente all’angoscia del vuoto e, attraverso la dualizzazione dell’incontro, condurlo alla riacquisizione di un senso. Come per Benedetti, il suo è un confrontarsi con l’esistenza negata, nella convinzione che anche un personaggio assente può essere protagonista di una narrazione e che nella ricerca di dare vita e visibilità a questo personaggio in termini attivi, si può essere trasportati lontano da sé come condizione, parafrasando Heidegger, di un possibile ritorno più cosciente a sé. Come per Benedetti, “al mondo dell’alienazione contrappone il mondo della ricezione terapeutica”, al negativo quello del lavoro del positivo, con una partecipazione che non è solo comprensione ma un “portare assieme” che è “farsi carico di una sofferenza condivisa”. Come per Benedetti, Manica considera una sfida quella di cercare di capire e di decifrare, una sfida intesa come base, condizione, parte essenziale di ogni autentico impegno nell’ambito della clinica. Come per Benedetti, Manica fa lo sforzo di coniugare la cura dei pazienti gravi con la tecnica psicoanalitica, ripensando ai concetti classici di transfert, controtransfert e interpretazione e indicando la comunicazione inconscia come modo di essere con il paziente e di accettare la scommessa della psicoterapia intesa come un andare “oltre”, aprire nuove prospettive, ricercare nuove forme di contatto finalizzate a varcare i confini dei silenzi e della desolazione intrapsichica: in fondo un essere accanto all’altro nella sofferenza giungendo a dilatarne la comprensione in termini psicoanalitici. In questo senso è possibile a rintracciare un comune denominatore psicanalitico in ogni forma di terapia, sia che si svolga in un ambito individuale o in un ambito comunitario, sia nella realtà di un reparto psichiatrico che in una stanza di analisi e sia che riguardi il singolo analista o un gruppo curante.
Autore: Luisa Crevenna 09 mag, 2020
La psicoanalisi, nata come osservazione dell’intrapsichico, grazie anche al contributo della psicoanalisi infantile e all’osservazione del bambino e delle sue interrelazioni precoci con l’ambiente, si è evoluta in direzione di una sempre maggiore attribuzione di importanza all’ambiente esterno. Le concezioni derivate dalla Teoria dell’Attaccamento e dall’Infant Research, le conoscenze sulle relazioni promosse dagli studi sull’intersoggettività, il riconoscimento della transgenerazionali della trasmissione psicopatologica, ribadiscono l’importanza della relazione reale con la sua caratteristica di influenzamento reciproco dei partner e indicano alla teoria psicoanalitica una maggiore attenzione alle relazioni effettive e a rivedere anche in questa prospettiva il rapporto tra fantasia e realtà, tra mondo interno e mondo esterno, tra passato e presente. Il lavoro psicoanalitico con gli adolescenti e con i bambini, unitamente a quello con i border e gli psicotici, ha costituito, per la ricerca psicoanalitica, una buona occasione di revisione del concetto classico di cura psicoanalitica. Le espansioni della teoria e della tecnica in psicoanalisi, sappiamo, sono avvenute a partire dai contributi di analisti che si sono occupati di bambini: Klein, Winnicott. Quindi riflettere sulla psicoterapia dei bambini e degli adolescenti, dove la presenza dell'analista è aspetto assolutamente irrinunciabile, ci pareva un modo efficace per continuare un percorso di approfondimento. Lungo il cammino tra mondo infantile e mondo adulto, tra bisogni e pulsioni infantili e la ricerca e l’integrazione di un’identità nuova, anche lo psicoanalista si trova continuamente confrontato con l’ignoto, con l’insicurezza. È una sfida quella che il trattamento degli adolescenti lancia alla psicoanalisi e soprattutto alla nostra teoria della tecnica. La terapia di adolescenti ci costringe a ripensare e riformulare la nostra concettualizzazione del setting, del transfert e del controtransfert, dell’interpretazione e del ruolo della realtà esterna. Riflettere sugli intrecci teorici e tecnici tra la psicoanalisi dei bambini e degli adolescenti e quella degli adulti, confrontare l'uso diverso del transfert e dell’interpretazione, favorire, più in generale, uno scambio tra gli analisti di adulti adolescenti e bambini, ci sembra che possa essere un buon contributo all’approfondimento del nostro tema. Sarà per noi occasione di gettare uno sguardo nuovo sulla relazione tra paziente e terapeuta, colti nel loro essere e porsi per come sono e per come possono nella definizione e strutturazione del loro legame. Mai come nel trattamento del bambino e dell’adolescente, è molto più importante ciò che l’analista è di ciò che l’analista dice. Le caratteristiche dell’analista, il peso della sua soggettività entrano di forza nel processo psicoanalitico e nella soggettivizzazione del paziente. Lo stile, l’autenticità, gli orientamenti, le credenze, insieme al bagaglio teorico e tecnico, sono componenti che influenzano e promuovono la relazione terapeutica Per questi motivi ritengo importante il rapporto con chi si occupa da molti anni di terapie dei bambini, con coloro che sappiamo capaci di integrare Winnicott con le neuroscienze. Mi pare interessante un progetto terapeutico che associa al lavoro diretto sui bambini un intervento con e attraverso i genitori, allo scopo di potenziare le loro competenze genitoriali. Ritengo di particolare stimolo l’atteggiamento terapeutico dove la dimensione teorico-clinica coniuga l’approccio psicoanalitico con i contributi dell’Infant Research. Credo in una proposta teorica che sostenga l’ipotesi che i cambiamenti possano essere prodotti non solo contando sulla dimensione simbolica dell’esperienza ma coniugando entrambe le dimensioni: quella simbolico-verbale e quella procedurale-fattuale. Mi interessa il “far accadere un’esperienza nuova” all’interno della consultazione. La tecnica del gioco, strumento di elezione nella terapia dei bambini oltre ad appoggiarsi al significativo sostegno teorico di Winnicott, trova una sua validazione nei successivi studi dei neuroscienziati e dei ricercatori nel campo della memoria può essere altresì un enorme contributo per l’assetto mentale dei terapeuti degli adulti, una spinta allo sviluppo della capacità di rêverie, può contribuire a favorire un maggior contatto con il preconscio. L’identità del lavoro analitico non è definita né dall’uso del divano, né dalla frequenza delle sedute, né dall’esattezza dell’interpretazione ma da una capacità di ascolto dell’altro e nel saper mantenere vivo il dialogo. Nella terapia con l’adolescente la relazione “reale” occupa un posto importante e con questa la consapevolezza del nostro essere in gioco in quanto persona con la nostra umanità, con il nostro bagaglio di esperienze, con la nostra costellazione di difese e angosce, con la consapevolezza che queste caratteristiche influenzano e promuovono, nella relazione terapeutica, la nostra capacità di essere in contatto con l’adolescente nell’hic et nunc dell’incontro e, al tempo stesso, ci richiamano maggiormente alla sua neutralità e all’aderenza all’inconscio. L'attenzione alla propria soggettività non può che tradursi, nell'analista, in un costante funzionamento autoanalitico, in un’incrementata vigilanza al controtransfert, in una costante disponibilità a rivisitare gli aspetti della propria adolescenza, nutrendo il convincimento che non ci possiamo accontentare delle acquisizioni raggiunte, che i processi psichici non si esauriscono una volta per tutte, ma continuano ad essere alimentati dallo scambio profondo con l'altro che è in noi e con l'altro fuori di noi, nonché dalla presenza dell'inconscio.
Autore: Luisa Crevenna 09 mag, 2020
La psicosomatica si occupa di mente e di corpo, mette insieme due entità e due realtà distinte, integra elementi diversi della stessa unità non categorizzabile né come psichica né come somatica. Il rapporto tra mente e corpo è sempre stato un problema centrale nella riflessione psicoanalitica: lo stesso Freud sviluppò concetti che ancora oggi sono alla base della medicina psicosomatica moderna. Ne è un esempio –diceva Cremerius- la teoria della libido, per la quale Freud ha proposto un modello che integra aspetti somatici, psichici e sociali. Per Freud gli affetti, nel senso più stretto del termine, sono caratterizzati da un rapporto del tutto particolare con i processi somatici ma, a rigore, tutti gli stati psichici, anche quelli che siamo abituati a definire “processi di pensiero”, sono in una certa misura affettivi, e non uno di questi è privo di espressioni somatiche e di capacità di modifica di processi somatici. E d’altra parte nessun dato sensoriale è sufficientemente vivido se non si impregna di un’emozione corrispondente e, se, a sua volta, non si intreccia con il senso di sé. L’esperienza che abbiamo di noi oscilla tra l’essere e l’avere un corpo, in un equilibrio che necessita di continui aggiustamenti per poter essere mantenuto. Normalmente noi siamo il nostro corpo e viviamo in/con esso integrando le sensazioni sensoriali provenienti da organi e tessuti che elaboriamo in un vissuto psicologico caratterizzato da pensieri, fantasie, emozioni. Tuttavia, vi sono innumerevoli situazioni in cui la nostra corporeità viene inaspettatamente messa in evidenza ed in quei momenti noi abbiamo un corpo. Nel sintomo psicosomatico vi è un salto dalla mente al corpo, un salto dall’essere-un corpo all’avere-un-corpo. Le concezioni moderne rispetto alle affezioni psicosomatiche si collegano concettualmente alle nevrosi attuali di Freud, i cui sintomi non hanno un’origine psichica ma somatica e non sono l’espressione simbolica di conflitti ma l’equivalente di uno stato psicologico che sostituisce un’esperienza mentale. Se Freud riteneva che le nevrosi attuali non rientrassero nel campo della psicoanalisi proprio perché i sintomi sono privi di un significato che può essere oggetto di interpretazione, oggi la psicosomatica, che è la più diretta espressione di quella linea, entra a pieno diritto nei compiti dell’analista che deve sapersene occupare, distinguendo le fantasie rimosse da quelle che restano da costruire in quanto non hanno mai avuto accesso al codice verbale. Nella teoria psicosomatica persistono due concezioni della malattia psicosomatica. Da un lato i sostenitori che questa abbia un significato, che sia portatrice di senso avvicinandosi al concetto di conversione isterica, e dall’altro una posizione opposta la quale fa del deficit dei processi di significazione, della mancanza di messa in senso, l’origine stessa della malattia. Diversi studiosi, dopo Freud, diversi psicoanalisti se ne sono occupati: ad es Dunbar Deutsch ed Alexander, autori che tentano di collocare i sintomi psicosomatici nella cornice della teoria del conflitto che resta per loro il primo, importante paradigma della medicina psicosomatica. Verso la fine degli anni ’50, alcuni psicoanalisti francesi guidati da Pierre Marty, noti come Scuola di Parigi, propongono un nuovo potenziale paradigma che sostituisce e integra le teorie basate sul conflitto. E a tutt’oggi Smadja, psichiatra, psicoanalista della Società Psicoanalitica di Parigi, con funzioni di training e Presidente dell'Associazione Internazionale di Psicosomatica Pierre Marty, è una delle voci più interessanti.
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